Antonio Coletta Autore, ufficio stampa, redattore editoriale

Riconoscere le macerie per ricostruire. Vent’anni di buzzurri ad Alatri

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Riordinando i pensieri a margine dell’assassinio di Emanuele Morganti

Sono tornato ad abitare ad Alatri (FR) con la mia compagna e mia figlia per una serie di fortunati e sfortunati eventi. Se dovremo vivere qui ancora a lungo è mio interesse che Caterina (mia figlia) viva in un luogo dove possa crearsi interessi e in modo sicuro. Se l’omicidio di Emanuele Morganti viene riconosciuto come il punto più basso di un degrado sociale e culturale che in molti avvertono e per la maggior parte subiscono e assorbono e l’unico modo per sfuggirvi è fare leva sulle proprie attitudini ed inclinazioni, credo che l’unico modo per evitare la deriva proibizionista, la politica del coprifuoco o la rincorsa al controllo del territorio e del mercato della cocaina da parte delle bande di ruspanti delinquenti locali che si atteggiano a protettori e vendicatori del popolo sia non difendere l’onore della città ma fornire un ritratto onesto di questa provincia (che anche se la provincia fosse uguale dappertutto perché questa non dovrebbe essere migliore?), un racconto sincero della città, nel bene e nel male, per poi chiedere aiuto, mettere un punto e ripartire, lavorando perché la parte sana della città torni ad occupare gli spazi. Della difesa dell’onore di Alatri mi interessa poco e niente, lo ricostruiremo – se ne avremo voglia – negli anni che verranno, non prima di aver riconosciuto le macerie che abbiamo lasciato alle nostre spalle.

Sono nato e cresciuto ad Alatri, comune della provincia di Frosinone densamente popolato da buzzurri, paese nel quale la scorsa settimana un ragazzo di appena vent’anni è stato assassinato in un locale che fa musica dal vivo [parole che non dovrebbero mai comparire in questa sequenza nella stessa frase].

Prescindendo dalle modalità dell’episodio e dall’identità degli esecutori, non credo che questa cittadina di trentamila anime sia meno sicura di quanto non fosse vent’anni fa (quando, ad esempio, gente del luogo organizzava spedizioni punitive armati di catene contro i primi immigrati albanesi) o dieci anni fa (quando, ad esempio, un locale che aveva rifiutato da bere ad un tizio veniva messo a ferro e fuoco da un gruppo di giovani buzzurri).

Mi pare, piuttosto, che in questi vent’anni si sia cristallizzata l’accettazione omertosa di piccole sistematiche violenze e microcriminalità, delle quali noi adolescenti subivamo fascino, attrazione e minacce silenziose, auspicando di diventare un giorno buzzurri (e rispettati), vergognandoci delle nostre diversità culturali ed adattandoci — chi meglio e chi peggio — al disagio (o — i più fortunati — fuggendolo).

I buzzurri non erano (e non sono) disadattati: in questo mondo rovesciato i disadattati eravamo (e siamo) noialtri.

Nei giorni che hanno seguito l’omicidio, in risposta all’assalto di giornali e tivvù, ho colto in città una diffusa tendenza alla minimizzazione e all’autoassoluzione e una difesa strenua della comunità dalle accuse di omertà.

Se è vero che non tutta la comunità può essere accusata di essere omertosa, chi ha vissuto questa città dovrebbe sapere benissimo che una larga maggioranza dei suoi componenti — gruppone che ha compreso anche me per lunghi periodi, le forze dell’ordine, le istituzioni locali pubbliche e politiche, quella borghesia piccola piccola che non ha saputo farsi guida — è rimasta per anni silente ed inattiva, forse per manifesta incapacità, lassismo, menefreghismo, rassegnazione, ignoranza. Connivenza.

Se è certo che le scelte di cattiva condotta sono assolutamente individuali, che risse e scazzottate esistono dalla notte dei tempi, che nella bolla di sicurezza che ognuno di noi ha costruito per sé certe cose non accadono eccetera eccetera, che la generazione dei padri non ha colto i segnali di malessere dei figli e non fa loro spazio, che la generazione dei figli non riesce a colmare il suo vuoto di valori eccetera eccetera, se è vero che il degrado di Alatri avanza da almeno un ventennio ed ognuno ha una sua teoria in proposito, la città dovrebbe adesso fermarsi a pensare, chiedere a tutta la comunità di fermarsi un attimo e pensare a cosa vuole per se e per chi dovrà e vorrà vivere questo paese negli anni a seguire, riflettere su come colmare di interessi e socialità quelle sacche di vuoto che hanno fatto inciampare in una — più o meno costante — devianza violentemente autolesionista i nostri adolescenti di ieri e di oggi: se davvero i nostri figli dovranno crescere in questo luogo abbandonato dall’intelligenza, sta a tutti noi creare adesso (e subito) un modello sociale e culturale alternativo, nel quale i buzzurri non siano modelli da temere ed imitare ma persone da evitare.

A proposito dell'autore

Antonio Coletta

Antonio Coletta è autore, ufficio stampa e redattore editoriale freelance. Ha fondato numerosi blog e strambe webzine e collaborato con molte testate e troppi siti internet. Ha raccontato la sua fallimentare esperienza di addetto stampa del cantautore Calcutta in «Calcutta. Amatevi in disparte» (Arcana, 2018), pubblicato la raccolta di racconti «Mia madre astronauta» (Ultra, 2019) e partecipato all'antologia «Qui giace un poeta» (Jimenez, 2020) con un racconto su Roberto Bolaño.

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Antonio Coletta è autore, ufficio stampa e redattore editoriale freelance. Ha fondato numerosi blog e strambe webzine e collaborato con molte testate e troppi siti internet. Ha raccontato la sua fallimentare esperienza di addetto stampa del cantautore Calcutta in «Calcutta. Amatevi in disparte» (Arcana, 2018), pubblicato la raccolta di racconti «Mia madre astronauta» (Ultra, 2019) e partecipato all'antologia «Qui giace un poeta» (Jimenez, 2020) con un racconto su Roberto Bolaño.

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