Antonio Coletta Autore, ufficio stampa, redattore editoriale

Cronache da Budapest

C

DSC_0165Del bidet

Quel che non capisco dei popoli diverso dal nostro è come facciano a non lavarsi il culo.

Perché scartavetrarsi il sedere, con conseguenti ragadi sempre in agguato, se si può comodamente, con un semplice attrezzo, ripulire in quattro e quattr’otto lo sfintere? Senza nessuno sforzo, per giunta.

Immagino abbiano un callo osseo nell’ano. O che caghino in piedi. O che, chinati, si infilino un dito in culo sotto la doccia per ripulire il corposo piatto.

O, più semplicemente, che non la facciano.

Sì. Mi pare la soluzione più ovvia.

Dohany Utca

Vivo al quarto piano di un palazzo nel distretto ebraico di Budapest. L’appartamento è piccolo, molto piccolo, ma da solo ci si vive di lusso. L’ho scelto perché ha il bidet, roba che qui non si trova neanche all’Hilton.

Il quarto è anche l’ultimo piano dell’edificio. Io sono il mastro di chiavi. Per giungere alla mia dimora dalla strada, devo aprire e chiudere una lunga sequela di portoni e porte perché il guardiano di porta ha paura che entrino i ladri. Spesso l’ascensore non funziona e devo farmela a piedi. Ad intuito, direi che l’ultima revisione della carrucola risale alla caduta della cortina di ferro.

A difesa del mio monolocale c’è un cancello in ferro battuto, poi una porta. Tre chiavistelli che potrebbero essere quattro se uno non fosse caduto in disuso per mancanza chiave. Le finestre hanno le inferriate. Sapete, è l’ultimo piano, l’uomo ragno potrebbe calarsi facilmente giù dal tetto.

I palazzi di Budapest sono più o meno tutti così (o meglio, quelli che ho visto io) e, anzi, il mio è anche piuttosto signorile. Il mio appartamento, poi, in confronto a tanti altri che ho avuto l’onore di visitare, pare la Reggia di Versailles, ed è comunque in condizioni migliori della casa in cui vivo abitualmente. Dunque, non posso lamentarmi.

Mi rendo conto che non riesco più ad uscire tutte le sere. Non è il primo segno della vecchiaia, erano venute prima la calvizie e infinite difficoltà renali (piscio che è un piacere, sempre, in continuazione).

A volte, per non affaticarmi troppo, esco da solo, giusto per prendere una boccata d’aria. Il ghetto di Budapest somiglia un po’ a San Lorenzo, stesso ambiente di alcolisti e fattoni radical-chic. Forse l’ho scelto anche per questo, per sentirmi un po’ più a casa.

Nel mio quartiere a Pest non ci sono prostitute tranne due. Battono in una piazza in cui, per un motivo o per un altro, sono costretto spesso a passare. La prima volta che le ho incontrate mi parvero piuttosto vecchie (ma era notte fonda ed ero piuttosto disagiato). Il giorno dopo le ho guardate meglio. Sono giovani. Giovanissime. E brutte. E grasse. E volgari. Sono le ragazze più brutte del mondo. Mi fermano quasi ogni giorno parlandomi in ungherese: “szia, sajnálom, tud szopni a pénisze? 200 forint” (in realtà non ho la più pallida idea di cosa mi dicano, frasi brevi, forse mi insultano, tuttavia questa mi pare l’ipotesi più realistica).

L’ungherese fa parte del ceppo linguistico ugro-finnico, il che vuol dire incomprensibilità assicurata. A volte immagino che neanche gli ungheresi si comprendano tra loro. Lo faccio giusto per sentirmi più a mio agio.

Volevo studiarlo l’ungherese, giuro, mi è stato sconsigliato. Mi hanno detto che in appena quattro mesi non imparerei niente. Sì, va bene, ma qualcuno vuol dirmi come posso rispondere “no, grazie” a quelle due immonde battone che incontro tutti i santi giorni? Non mi piace essere maleducato.

Gotta bless us

“L’Unione Europea”, ha tuonato appena un mese fa il beneamato presidente Viktor Orban, “vuole diffondere la gotta nel nostro Paese. Vuole indebolirci, vuole vincerci, ma noi non ci lasceremo intimorire. Il mio Governo sta già pensando alle misure da prendere contro quella normativa che ci impone di mangiare carne a pranzo, cena e colazione”.

Da oggi, per permettere alla popolazione ungherese di poter scegliere piatti privi di carne e prevenire il rischio di gotta, una legge del Governo magiaro obbliga i menù di tutti i ristoranti ad inserire le figure. E’ noto, infatti, che i nomi dei piatti ungheresi – escluso il goulash, scritto gulyás -, risultano incomprensibili agli stessi magiari, i quali sono costretti ad effettuare ordinazioni “ad minchiam”.

Un passo avanti nella lotta per l’emancipazione dell’Ungheria dal mostro di Bruxelles.

Un grande passo avanti per ogni singolo ungherese, il quale, finalmente, potrà scegliere di non mangiare, ad esempio, carne di tacchino con ripieno di anatra rosolato nel bacon e contorno di coscia di pollo.

L’italiano è un’opinione

[Vaci Utca, 12 novembre 2012 ore 8:30 am, dialogo tra connazionali, presumibilmente milanesi]

– Quello lì giù è il mercato.

– Dove?

– Quell’edificio lì in fondo.

– Allora non è un “mercato”. Quando è al coperto, in italiano, si dice “supermercato”.

– Ah, non lo sapevo.

How I met your mother

Metti una sera te ne vai ad un concerto a Buda e, ad un certo punto, decidi di uscire fuori dal locale per fumare.

Metti ti si avvicini una ragazza palesemente ubriaca ed entusiasta e, senza che tu le dica niente, ti chieda scusa per il suo inglese, “ma tu come ti chiami? Posso offrirti una sigaretta?”

“Sto fumando, non vedi?”, le rispondi, ma lei è entusiasta, trema e ansima, non si perde d’animo.

Ti chiede di dove sei, quanti anni hai, cosa fai. E tu non le chiedi niente. Niente, perché è freddo e non ti va di fare conversazione.

Ma continuate a fumare. Ti chiede “vuoi un’altra sigaretta?”

Vuole offrirti per forza una sigaretta, poi ti dice “prendiamoci una birra”.

Lei è carina, ti dice “ti presento mia sorella più piccola”, e la sorella potrebbe andare bene per uno degli amici con te e, in effetti, Massimo da Firenze si mostra subito interessato.

Allora poi le dici “cambiamo locale, vieni con noi?”. E lei, ancora entusiasta, della vita, di te, non sai di cosa, dice “sì! sì!” – esulta – “potremmo andare in un locale di Pest, uno che conosco bene, tutti i miei amici sono lì”.

Tu guardi i tuoi amici, annuiscono. “Va bene”, le dici.

“Vado a dirlo a mia madre”, risponde lei.

Tu resti fuori ad attendere. E ti domandi “sua madre? E’ qui con sua madre? Ma quanti anni avrà?” – in cuor tuo tremi.

Ma c’è ancora più disagio ad attenderti. Eccole, le due figlie e la madre, ubriaca come se non ci fosse un domani.

“E’ il suo compleanno”, ti spiega la ragazza entusiasta, “siamo uscite noi donne lasciando mio padre e mio fratello in casa a badare agli animali”.

Quanti animali avessero non ti è dato saperlo. Immagini siano in un numero oscillante tra quelli dello zoo di Berlino e quelli dello zoo di New York.

Ed eccotele qui, le donne della famiglia, tutte palesemente ubriache.

E sua madre – La madre – così macellata dal tempo, la groupie attempata che urlava sotto il palco. E che ora si lamenta con Massimo da Firenze, in un inglese stentato. Lei era andata lì solo per il cantante. Perché voleva trombarselo il cantante. Voleva trombarselo. Lei, la sciancata.

Massimo da Firenze ha gli occhi di un cucciolo ora: “ti prego, salvami”, mormora in italiano. Quasi gli viene da piangere.

La madre lo vuole. Ora vuole lui.

Aspettiamo il tram che ci porti a Pest.

La ragazza entusiasta ti stringe e ti chiede se non sia bellissimo avere un rapporto del genere madre – figlia.

La madre fa gli occhi dolci a Massimo e spera di festeggiare i suoi quarantacinque anni saltellandogli allegramente sul cazzo.

La sorella, intanto, vomita.

Il padre e il fratello sono a casa a badare agli animali.

You looks like a gipsy (me pari ‘no zingaro)

Gli zingari rappresentano per il popolo ungherese quel che per noi sono i terroristi di Al-Quaeda.

Due mesi fa ho preso casa nel ghetto ebraico, vicino Blaja Luhza, ignaro che poi mi avrebbero rinfacciato in continuazione che “è una zona pericolosa, piena di zingari”.

Io, però, mi sento a mio agio in questo quartiere. San Lorenzo a Roma, per farvi un esempio, è zona ben più pericolosa.

Gli zingari li riconosci, sono brutti e scuri. Proprio come me.

Il mio aspetto fisico mi ha creato non pochi problemi con i condomini ungheresi, i quali sono ancora indecisi se identificarmi come rom o straniero (l’unico a non spaventarsi e darmi confidenza è il negretto coi rasta che abita al primo piano).

Tuttavia qualcosa sta cambiando se l’altra mattina la vecchia del secondo piano ha preso l’ascensore con me senza tremare ed urlare “NEM”.

Insomma, ora lei pensa di me che io sia uno zingaro di quelli buoni, integrati: non teme più che io voglia ucciderla.

Un piccolo passo per una vegliarda magiara, un grande passo per i miei rapporti di buon vicinato.

Bionda per bionda

La lotta al tabagismo del Governo Orban passa non solo attraverso i divieti di fumare a meno di cinque metri da ogni locale, ente pubblico, fermata del tram.

La guerra dichiarata al tabagismo dal beneamato Governo Orban si basa, anche e soprattutto, su messaggi subliminali impartiti alle ultime generazioni di magiari attraverso terribili immagini sui pacchetti di sigarette.

Brigit mi ha appena rimorchiato al bancone del più famoso pub di Budapest. Capisce che io tento ma non parlo ungherese e mi si getta subito addosso, sfoggiando un inglese niente male. Domande su domande. Massimo di Firenze cerca di inserirsi ma non può niente. Brigit (che io insisto a chiamare Igrit) ha scelto me. E’ alta, bionda, ha gli occhi azzurri e un bel sorriso.

Le dico “andiamo a fumare”. Lei mi strappa il pacchetto di sigarette di mano: sul retro, una sigaretta a forma di cazzo moscio. Mi dice che se fumo non posso fare sesso. Vorrei dirle “ma chi te le dice tutte queste cazzate? Orban?”, ma non ho abbastanza dimistichezza con l’ungherese (tuttavia sono bravissimo a brindare, contare fino a venti, salutare, ringraziare, ordinare birre, dire sì e dire no) e, in inglese, avrei paura di risultare eccessivamente volgare.

“Smetti di fumare”, mi dice. Le dico che “no, Igrit, non posso fumare meno di venti sigarette al giorno, vieni a fumare con me”. “Ti aspetto qui”, mi dice indispettita.

Vado a fumare. Il tempo di una sigaretta, torno nel pub e lei se ne sta andando con un trippone, presumibilmente scozzese.

Non avevo mai visto una ragazza tanto arrapata.

Mi volto a guardarla mentre se ne va. “Fianchi larghi”, dico a Massimo. Lui mi dice “sì, dai, non ti sei perso niente”.

A proposito dell'autore

Antonio Coletta

Antonio Coletta è autore, ufficio stampa e redattore editoriale freelance. Ha fondato numerosi blog e strambe webzine e collaborato con molte testate e troppi siti internet. Ha raccontato la sua fallimentare esperienza di addetto stampa del cantautore Calcutta in «Calcutta. Amatevi in disparte» (Arcana, 2018), pubblicato la raccolta di racconti «Mia madre astronauta» (Ultra, 2019) e partecipato all'antologia «Qui giace un poeta» (Jimenez, 2020) con un racconto su Roberto Bolaño.

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Antonio Coletta è autore, ufficio stampa e redattore editoriale freelance. Ha fondato numerosi blog e strambe webzine e collaborato con molte testate e troppi siti internet. Ha raccontato la sua fallimentare esperienza di addetto stampa del cantautore Calcutta in «Calcutta. Amatevi in disparte» (Arcana, 2018), pubblicato la raccolta di racconti «Mia madre astronauta» (Ultra, 2019) e partecipato all'antologia «Qui giace un poeta» (Jimenez, 2020) con un racconto su Roberto Bolaño.

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