Sono già trascorsi vent’anni dall’uccisione di Enzo Baldoni in Iraq, non me ne ero accorto. Era per me l’età delle passioni, delle contrapposizioni, degli eventi che segnano le idee e la vita. Fu anche per Baldoni, per la sua esperienza umana e professionale, fu anche leggendolo che decisi che nella mia vita, per quanto un bel po’ più vigliacca della sua, avrei messo in fila le parole per raccontare quel che percepivo del mio piccolo mondo (con poco successo e scarsa remunerazione: ma questo, a quel tempo, non potevo saperlo).
Non ho mai amato la retorica dell’eroe. Ho sempre annusato qualcosa di mortifero nel gesto di chi consapevolmente si sacrifica: un bisogno ambiguo di farsi piangere e applaudire più forte della voglia di vivere. Non c’è dubbio, però, che in Iraq Enzo Baldoni si sia comportato da eroe, cercando di testimoniare quello che stava accadendo e portando aiuto dove poteva, a rischio della vita: prendendosi in carico il destino di un ragazzo amputato, che poi fu curato da Emergency, partecipando e guidando due missioni umanitarie di aiuti in una città assediata. E non c’è dubbio che in Italia il suo coraggio non sia stato riconosciuto, neppure nell’ottica patriottica che oggi va per la maggiore, ma che non mi appartiene e soprattutto non gli apparteneva. […] Sulla sua tomba a forma di balena è stato inciso un epitaffio di Marguerite Yourcenar: “Ho avuto la buona vita di un cane al sole”.
Giacomo Papi, L’ultima volta che ho visto Enzo Baldoni (Il Post)