Antonio Coletta Autore, ufficio stampa, redattore editoriale

M.

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Forse potrebbe andar via, come dicono che prima o poi capiti a tutti.

Ho un ricordo di me, tornato da poco a vivere in provincia, che spingo mia figlia sul passeggino, e di lui, incontrato per caso, così ipocondriaco, che mi racconta dei suoi primi veri problemi di salute. Mi dice che un giorno andrà a morire in una clinica, in Olanda – se non sbaglio –, io gli dico che non lo farebbe mai perché vivere gli piace troppo. «E poi dopo non cʼè nulla, e tu sei un vigliacco» – «vigliacchissimo», ride lui a labbra strette. E poi si dilunga sul tema del diritto al suicidio e su una discussione in proposito che ebbe con mio padre ai tempi dellʼuniversità (un racconto che ho ascoltato mille, forse milioni di volte). Lo interrompo e lo saluto, con la scusa di qualche impegno familiare che mi attende.

Cʼè ancora tempo per andare in Olanda, mi dico io stamattina, mentre lui magari si prepara a uno spettacolare ritorno in scena in barba alla medicina e alla scienza. In barba alle regole e alle convenzioni, come sempre fa.

È un uomo complesso, senza alcun pragmatismo, pieno di contraddizioni: colto, sensibile, arguto, intelligente, mite, prepotente, egoista, narcisista, stronzo («stronzissimo»), irrispettoso, fuori dagli schemi, eccentrico, stravagante, disordinato, giocoso, ironico, autoironico, permaloso, allegro, sofferente, riflessivo, pigro, edonista. Sono tutte sfaccettature del carattere che convivono in lui contraddicendosi di continuo, e a farne un ritratto con aneddoti e strumenti psicologici dʼaccatto si rischierebbe di ridurre la sua figura a una macchietta – cosa che non è mai stato.

Verso la sua figura ho un debito biologico, perché la tradizione vuole che i miei genitori si siano fidanzati durante una festa a casa sua, e quindi, in qualche modo, anche a lui devo la mia esistenza. Ma gli devo anche altre cose: il divertimento per le incursioni strampalate in casa dei miei e per la loro desacralizzazione (che poi, quando iniziò a dirmi che mio padre si faceva le pippe sulla costituzione, io neanche sapevo cosa fossero le pippe), un sacco di canzoni e di animazione, alcune forme di piacere per il kitsch, per lʼassurdo e la stravaganza, per la libertà, la polemica e la prepotenza intellettuale. E, anche se come modello negativo – mi perdonerà, ma sa come la penso oggi su alcune cose –, lo devo ringraziare per avermi permesso di specchiarmi dentro di lui e di capire, infine, dove e quando frenare il mio cervello, la mia insoddisfazione, la mia rabbia verso il mondo, la mia insofferenza per la vita di provincia.

È stato un amico dei miei genitori e poi, quando loro sono diventati troppo adulti, è diventato mio compagno di giochi e discussioni.

Tra le tante cose che dice – e contraddice – cʼè il suo auspicio per lʼestinzione dellʼumanità (tutti tranne lui), ma credo di non aver mai conosciuto persona che riponga più fiducia nellʼaltro e che sia stato più fregato, almeno nei beni materiali, dal prossimo, benché incontrato solo due o tre volte per strada o al bar.

Tra le tante cose che detesta ci sono i tradimenti, le separazioni, la venuta al mondo di nuovi esseri umani. Tante volte ho assistito a suoi sproloqui su questi temi che ferivano i diretti interessati, senza freni, in modo inappropriato: credo che, per qualche insondabile motivo, lo ferisca direttamente, in modo eccessivo, la fine di qualsiasi amore (alla Nanni Moretti, che quando si sceglie dʼamare qualcuno è per sempre), così come la fine della gioventù o il principio delle responsabilità che discenderebbero dalla genitorialità.

E così, quando i miei genitori si sono separati, e quando poi è nata mia figlia, ho temuto di incontrarlo, ed ero terrorizzato allʼidea di dovermi scornare con lui su argomenti tanto sensibili. Ma quando i miei genitori si sono lasciati mi ha detto solo «mi dispiace»; e poi, quando sono diventato papà, che una volta tanto era contento che qualcuno si fosse riprodotto. Forse si è ammorbidito invecchiando, pur non volendo mai diventare adulto come vogliono le convenzioni. Mi piace pensare che sia stato un suo modo per dirmi che mi vuole bene.

Ma forse sono stato io a non volergli abbastanza bene, perché in tante giornate fatte di ventiquattro ore negli ultimi anni non ho voluto trovare un minuto per lui. Non ho voluto trovarlo perché sapevo che qualcuno si occupava di lui, perché in fondo la malattia dà sempre angoscia anche a chi gode di ottima salute, perché lʼultima nostra discussione e un mio rimprovero mi avevano escluso dalla lista dei destinatari delle sue richieste dʼaiuto (talvolta tanto strampalate da sembrare più richieste di affetto o compagnia) e dei suoi insistenti cicli di telefonate che mi rubavano tanto tempo prezioso, perché – egoista («egoistissimo») – sento sempre più il bisogno di pensare a me stesso e a mia figlia prima che a chiunque altro. E poi mi sono detto certo che a parti invertite lui non avrebbe fatto nulla per me – e, invece, probabilmente non sarebbe andata così: ricordo solo ora di quando mi raccontò di essersi recato in ospedale per suonare, cantare e far ridere il povero G. Insomma, alla fine sono diventato un adulto anchʼio – uno di quelli seri, uno di quelli maledetti, con i tempi scanditi dal lavoro, dalla famiglia e dalle convenzioni della buona società, un conformista che non riesce più a far divertire nessuno.

Mi sono ricordato di una sera di canzoni in gruppo, che cantavamo «Caterina» di Francesco De Gregori, che si chiude così: «…questa mia canzone la vorrei veder volare, per i tetti di Firenze per poterti conquistare». Io invece cantai «per poterti consolare», e allora lui volle far notare a tutti i presenti il mio lapsus per sottolineare una mia presunta nobiltà dʼanimo («da fesso», dissi io – «fessissimo», puntualizzò lui).

Ma se mai cʼè stata quella mia presunta nobiltà dʼanimo, si è persa nella teoria e nel tempo. Mi ricordo anche che tornando da un breve viaggio in Toscana, nel quale scroccammo vitto e alloggio con un poʼ di schitarrate, parlò per due ore di una canzone di Paolo Conte che parla di una «ragazza fisarmonica», e delle donne, e di quanto sia complicato lʼamore in generale – da qualche parte dovrebbe avere un faldone ad anelli pieno di fitti appunti sul tema del ruolo delle donne, che custodisce gelosamente e che un giorno mi strappò di mano dopo avermi sorpreso a sfogliarlo.

Gliela metto qui quella canzone, perché gli piaceva così tanto e sono certo che gli piacerà ancora, ora che si sveglia e la ascolta, subito prima di inviarmi uno dei suoi messaggi pieni di improperi.

A proposito dell'autore

Antonio Coletta

Antonio Coletta è autore, ufficio stampa e redattore editoriale freelance. Ha fondato numerosi blog e strambe webzine e collaborato con molte testate e troppi siti internet. Ha raccontato la sua fallimentare esperienza di addetto stampa del cantautore Calcutta in «Calcutta. Amatevi in disparte» (Arcana, 2018), pubblicato la raccolta di racconti «Mia madre astronauta» (Ultra, 2019) e partecipato all'antologia «Qui giace un poeta» (Jimenez, 2020) con un racconto su Roberto Bolaño.

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Antonio Coletta è autore, ufficio stampa e redattore editoriale freelance. Ha fondato numerosi blog e strambe webzine e collaborato con molte testate e troppi siti internet. Ha raccontato la sua fallimentare esperienza di addetto stampa del cantautore Calcutta in «Calcutta. Amatevi in disparte» (Arcana, 2018), pubblicato la raccolta di racconti «Mia madre astronauta» (Ultra, 2019) e partecipato all'antologia «Qui giace un poeta» (Jimenez, 2020) con un racconto su Roberto Bolaño.

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